L’arte del chip-deal: Washington cambia rotta sull’IA


Il 7 maggio il Bureau of Industry and Security (BIS) del Dipartimento del Commercio statunitense ha annunciato l’abrogazione del quadro di riferimento per la diffusione dell’intelligenza artificiale (“AI Diffusion Rule”), una norma dell’era Biden che sarebbe dovuta entrare in vigore il 15 maggio. La regolamentazione avrebbe imposto restrizioni all’export di microchip avanzati destinati ai sistemi d’intelligenza artificiale (IA) verso un’ampia serie di Paesi terzi in assenza della preventiva approvazione da parte del governo federale. 

La decisione segna un chiaro cambio di rotta. Sebbene nei primi mesi del suo secondo mandato il presidente Donald Trump avesse ampiamente confermato – e in alcuni casi rafforzato – i controlli sull’export introdotti dall’amministrazione democratica, l’abrogazione della norma rappresenta un’inversione di tendenza. Washington continua a considerare la produzione e il commercio di semiconduttori avanzati e tecnologie come una questione di “sicurezza nazionale”, ma ora preferisce evitare vincoli geografici troppo stringenti, escludendo di fatto solo la Cina dai mercati di destinazione dei microchip “Made in USA”.

La portavoce del Dipartimento del Commercio ha annunciato l’intenzione di sostituire l’attuale regolamentazione con un quadro normativo più “snello”. “L’amministrazione Trump perseguirà una strategia coraggiosa e inclusiva per condividere la tecnologia americana nel campo dell’IA con Paesi stranieri fidati, mantenendola al contempo lontana dalle mani dei nostri avversari”, ha dichiarato Jeffrey Kessler, sottosegretario al Commercio per l’Industria e la Sicurezza. 

Cosa prevedeva l’“AI Diffusion Rule”

L’“AI Diffusion Rule” fa parte di una serie di misure introdotte dall’allora presidente Joe Biden negli ultimi giorni del suo mandato nel gennaio 2025. Questa normativa è stata concepita come un tentativo di bilanciare tre priorità: rafforzare il controllo sulle tecnologie avanzatepromuovere le esportazionistatunitensi e utilizzare la regolamentazione come leva diplomatica. Lo scopo era rispondere alle preoccupazioni di sicurezza nazionale relative allo scambio di know-how tecnologico verso Paesi rivali, con particolare attenzione alla Cina, tenendo conto anche degli interessi economici dei produttori nazionali. Come sottolineato da Brad Smith, presidente di Microsoft, durante una recente audizione al Senato, la misura di Biden intendeva “inviare un messaggio chiaro a 120 nazioni: d’ora in poi, non potranno più dare per scontato l’accesso alla tecnologia IA statunitense”. Sebbene gli Stati Uniti avessero già limitato le esportazioni verso Paesi “concorrenti”, come la Cina e la Russia, alcuni di questi meccanismi di controllo presentavano delle falle, permettendo il contrabbando di semiconduttori avanzati soprattutto dai Paesi del Sud-Est asiatico verso la Cina.

Il regolamento prevede la classificazione dei Paesi in tre fasce, secondo diversi livelli di controllo dell’export e requisiti di licenza relativi al livello di rischio. Nella prima fascia (Tier 1) rientrano circa 20 Paesi considerati “alleati” – come il Giappone e la Corea del Sud –, per i quali non vi sono restrizioni alle esportazioni, beneficiando di una deroga alla licenza. Nella terza fascia (Tier 3), invece, Washington ha collocato i cosiddetti “Paesi a rischio” – Cina, Russia, Iran e Corea del Nord – tenuti a richiedere un’autorizzazione per l’esportazione di microchip, sebbene soggetti alla clausola di “presunzione di diniego”. Per tutti gli altri, nella fascia intermedia (Tier 2), l’autorizzazione è rilasciata con “presunzione di approvazione”. Questo gruppo comprende Paesi come il Messico, la Malaysia e diversi Stati del Medio Oriente, le cui importazioni di microchip sarebbero state limitate da Washington a causa del rischio che tali dispositivi finissero indirettamente in Cina. L’amministrazione Biden cercava così di bilanciare la necessità di mantenere il controllo statunitense sui potenti sistemi di IA, con l’esigenza di promuovere l’export di prodotti e servizi hi-tech all’estero.

Le motivazioni dietro la revoca

Fin dal suo annuncio, la norma ha incontrato forti resistenze. La revoca da parte del BIS è, in parte, il frutto dell’attività di lobbying svolta sia dai rappresentanti dell’industria dei semiconduttori – tra cui NVIDIA e Oracle – sia dai legislatori repubblicani. I primi sottolineavano come le diverse restrizioni introdotte stessero sopprimendo l’innovazione a stelle e strisce, impedendo loro l’accesso al mercato globale e ostacolando gli sforzi diplomatici intrapresi da Washington con Paesi partner in Medio Oriente, Asia meridionale ed Europa. Per i secondi, invece, il limite massimo imposto dalla regolamentazione avrebbe incentivato diversi governi a rivolgersi direttamente alla Cina per l’acquisto di tali tecnologie a minor costo e con più facilità, favorendo così la scalata della nazione asiatica nella corsa per il dominio dell’IA.

Voci importanti dell’industria hanno definito l’“AI Diffusion Rule” un “eccesso di regolamentazione” che rischia di indebolire la leadership americana e avvantaggiare i competitor stranieri. Lo stesso amministratore delegato di NVIDIA, Jensen Huang, ha duramente criticato questa legge, bollandola come “un totale fallimento” e un esempio di regolamentazione “fondamentalmente errata”. Già a gennaio l’azienda aveva espresso le sue riserve sulla legge: “Per decenni, la forza degli Stati Uniti è derivata dalla promozione di ecosistemi di elaborazione e software aperti e competitivi, non dall’imposizione di design, il numero di vendite e accesso al mercato globale”.

Un adattamento “ad alto costo” per NVIDIA

Uno dei critici più accesi delle misure sul controllo dell’export è NVIDIA, leader nella produzione di microchip per l’integrazione dell’IA. Per l’azienda americana, infatti, conformarsi alle regole statunitensi in continua evoluzione è diventato un esercizio ad “alto costo”. Con l’introduzione di diversi pacchetti normativi, NVIDIA si è trovata costretta a ripensare la propria strategia, sviluppando modelli di semiconduttori depotenziati (come l’H20 e l’L40), per rimanere entro i limiti previsti e continuare a operare sul mercato cinese. Tuttavia, questi sforzi si sono rivelati vani: Donald Trump ha vietato la vendita del modello H20 in Cina, nonostante fosse stato progettato su misura per quel mercato. Questo provvedimento ha avuto conseguenze economiche negative per l’azienda, che ha stimato oneri per circa 5,5 miliardi di dollari.

In occasione della conferenza Computex del 2025 a Taipei, Jensen Huang ha denunciato pubblicamente gli effetti derivanti dalle misure ristrettive di Biden: la quota di mercato di NVIDIA in Cina è scesa dal 95% del 2021 al 50% attuale, in un mercato, quello dell’intelligenza artificiale “Made in China”, che si prevede possa raggiungere i 50 miliardi di dollari nei prossimi anni. 

Secondo l’amministratore delegato, i controlli sulle esportazioni statunitensi stanno favorendo inavvertitamente l’ascesa dell’industria tech cinese. Tagliate fuori dai microchip americani, molte aziende locali hanno iniziato a rivolgersi sempre più ad alternative nazionali, in particolare a Huawei. Contemporaneamente, Pechino ha aumentato drasticamente gli investimenti per sviluppare una propria catena di fornitura di semiconduttori. Secondo Huang, le restrizioni hanno fornito alle aziende cinesi “lo spirito, l’energia e il sostegno governativo” necessari per aumentare le loro capacità di innovazione e produzione. Uno studio dell’Economist Intelligence Unit (EIU) del marzo 2024 ha stimato che, nell’ultimo decennio, gli investimenti statali cinesi nel settore dei semiconduttori abbiano superato i 150 miliardi di dollari, una somma sbalorditiva che sottolinea la determinazione di Pechino a raggiungere l’autosufficienza tecnologica.

Il fattore Cina

Negli ultimi anni Washington ha inasprito i controlli sull’esportazione di tecnologie avanzate verso la Cina, motivando tale stretta con il timore che questo know-how potesse rafforzare le capacità militari di Pechino e compromettere la supremazia tecnologica americana. Alla base di queste misure vi è la convinzione che l’esito della “corsa ai microchip” determinerà chi guiderà il settore dell’intelligenza artificiale nel prossimo futuro – una sfida con implicazioni di sicurezza economica di vasta portata.

Durante il suo mandato il presidente Biden ha introdotto una serie di misure volte a limitare l’accesso cinese a “tecnologie sensibili”, estendendo i divieti anche ai territori di Hong Kong e Macao. Nell’ottobre 2022 gli Stati Uniti hanno imposto controlli a tappeto sull’export di componenti ad alte prestazioni, design e apparecchiature fondamentali per la produzione di microchip avanzati. Queste restrizioni sono rivolte sia alla Cina che a diverse “entità cinesi”, con l’obiettivo dichiarato di impedire lo sviluppo di dispositivi ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale e gli interessi di politica estera degli Stati Uniti.

Tuttavia, con l’abrogazione dell’“AI Diffusion Rule”, la Casa Bianca ha prontamente chiarito che taleprovvedimento non alleggerisce le restrizioni all’esportazione già in vigore. Rimangono in vigore i rigidi requisiti di licenza applicati alle aziende incluse nell’elenco della “Entity List, così come le restrizioni del 2023che hanno esteso la giurisdizione statunitense a più di 40 Paesi, molti dei quali situati nel Golfo e nel Sud-Est asiatico, ritenuti in grado di fungere da “intermediari” per Pechino. 

A rafforzare ulteriormente questo impianto normativo, il BIS ha annunciato l’intenzione di inasprire ulteriormente i controlli sui microchip avanzati implementati nei dispositivi cinesi. In particolare, l’utilizzo “in qualsiasi parte del mondo” dei processori “Ascend AI” di Huawei costituirà una totale violazione delle normative statunitensi sull’export. Tali dispositivi, infatti, sarebbero stati sviluppati utilizzando software, tecnologie o apparecchiature di origine statunitense senza, tuttavia, aver ottenuto l’autorizzazione federale.

L’annuncio di queste nuove misure è avvenuto pochi giorni dopo l’accordo tra Stati Uniti e Cina a Ginevra per sospendere la maggior parte dei dazi bilaterali introdotti dal presidente Trump in occasione del “Liberation Day” – sviluppo che è stato rapidamente messo in ombra dalla brusca reazione di Pechino. Il ministero del Commercio cinese ha, infatti, accusato Washington di “abusare dei controlli sulle esportazioni per sopprimere e contenere la Cina” e promesso una riposta tempestiva, definendo tale decisione come “un tipico esempio di bullismo e protezionismo unilaterale”.

Infine, il 29 maggio il governo statunitense ha annunciato nuove restrizioni che obbligano le aziende americane a ottenere un’autorizzazione per esportare in Cina alcune merci “strategiche”, in particolare nel settore dei semiconduttori. Le misure riguardano software di progettazione elettronica (EDA), prodotti chimici per la produzione di microchip, macchinari industriali e attrezzature per l’aviazione. Il Dipartimento del Commercio ha già iniziato a informare le imprese, tra cui i fornitori di software EDA come Cadence e Synopsys. Secondo quanto riportato, le richieste di licenza saranno valutate “caso per caso”, segnalando che non si tratta di un divieto totale.

La nuova “moneta di scambio”?

Parallelamente al mantenimento delle restrizioni nei confronti della Cina, l’amministrazione Trump sembra orientarsi verso un approccio più flessibile e bilaterale, utilizzando i microchip di nuova generazione come “asset strategici” in ambito commerciale e geopolitico. Secondo questa strategia, ogni accordo commerciale verrebbe calibrato sulla base del profilo di rischio, degli interessi diplomatici e delle priorità economiche specifiche del partner coinvolto.

Un’anteprima di questa strategia è emersa in occasione degli accordi conclusi recentemente dagli Stati Uniti con alcuni Paesi del Golfo. Durante la sua prima missione diplomatica in Medio Oriente il presidente Trump ha approvato la vendita di centinaia di migliaia di microchip avanzati di produzione americana ad aziende degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita. Parallelamente, le case produttrici NVIDIA e AMD hanno annunciato nuovi progetti significativi nella regione: la prima ha avviato una partnership strategica con un’azienda finanziata dal Fondo d’investimento pubblico saudita, mentre la seconda ha presentato un piano da 10 miliardi di dollari per espandere le sue attività nel Paese. Un altro importante accordo sarebbe in preparazione con l’azienda tecnologica emiratina G42. Tutte queste iniziative rappresentano un netto distacco dalle politiche restrittive dell’era Biden nei confronti dei Paesi del Golfo.

Questo cambiamento nella politica di Washington riflette la cosiddetta “arte del negoziato” (“art-of-the-deal”) che tanto piace all’attuale amministrazione. Secondo questo approccio, i semiconduttori avanzati prodotti negli Stati Uniti costituiscono un vero e proprio strumento di diplomazia economica, oltre che un asset tecnologico. Tuttavia, diversi osservatori sollevano dubbi sull’efficacia di una strategia frammentata basata su negoziazioni ad-hocUn simile mosaico di accordi bilaterali potrebbe compromettere la coerenza della politica statunitense in materia di export, ostacolare la pianificazione strategica a lungo termine e minare la stabilità necessaria alle aziende nazionali per operare a livello globale. In questo scenario aziende come NVIDIA rischiano di trasformarsi da semplici operatori privati a vere e proprie pedine in questo panorama politico in continua evoluzione. Per gli investitori e le aziende tech statunitensi, la questione cruciale non è più solo se sarà possibile vendere i propri prodotti a livello globale, ma se la rete frammentata di accordi commerciali bilaterali fornirà un ambiente stabile e prevedibile in cui farlo.

Se da un lato impedire alla Cina di acquisire tecnologie all’avanguardia nel campo dei microchip avanzati rimane una priorità essenziale per la sicurezza nazionale del Paese, dall’altro è sempre più evidente che le sole restrizioni all’export non bastano a garantire il mantenimento della leadership tecnologica americana nel lungo termine. La competizione globale sull’intelligenza artificiale richiede una strategia più ampia e lungimirante capace di integrare le politiche di controllo con investimenti su tutta la filiera: dall’elaborazione del know-how alla costruzione delle infrastrutture necessarie e al consolidamento di partnership internazionali affidabili.



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